BWW Reviews: Sette Spose per Sette Fratelli

By: Mar. 07, 2014
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Era il 1953 quando la Metro-Goldwyn-Mayer diede il via alla produzione di due dei suoi film musicali più "classici," ossia Seven Brides for Seven Brothers e Brigadoon. Non è un mistero che la Casa del Leone fosse più interessata all'ultimo, adattamento cinematografico del primo successo teatrale di Alan Jay Lerner e Frederick Loewe (My Fair Lady, Camelot, Paint Your Wagon) e lo dimostra il fatto che il budget per Sette Spose venne drasticamente tagliato a 2,540,000 dollari (rispetto ai 3,019,000 di Brigadoon). L'investimento "risicato" creò non pochi problemi alla produzione che, non disponendo dei mezzi necessari, dovette girare in studio anche le scene all'aperto facendo ricorso a fondali non proprio realistici. Nonostante gli ambienti visibilmente artificiali, all'uscita del film nel 1954, l'indimenticabile love story tra Milly e Adamo, le coreografie di Micheal Kidd, l'indovinato cast capitanato da Jane Powell e Howard Keel - in cui figurava, nel ruolo di una delle spose, la Catwoman Julie Newmar - e la splendida partitura di Gene de Paul e Johnny Mercer conquistarono gli spettatori di ogni parte del mondo rendendo Seven Brides for Seven Brothers una delle punte di diamante del repertorio MGM. Brigadoon, per contro, nonostante la presenza di Gene Kelly e Cyd Charisse, non ottenne il successo sperato.

Nel 1982, la riduzione teatrale di Seven Brides arriva all'Alvin Theatre di Broadway, chiudendo dopo 15 repliche. Più fortuna ebbe nel West End, nel 1985, dove riuscì a resistere per 41 repliche. Penso che il motivo più plausibile per il fiasco di questo show (oltre l'inevitabile confronto col film) sia stata la scelta di "fare a brandelli" la partitura di Mercer e DePaul accostando ai cinque brani superstiti - ossia, Bless Your Beautiful Hide, Wonderful Wonderful Day, Goin' Courtin', Lonesome Polecat e Sobbin' Women - sette trascurabili numeri musicali firmati da Al Kasha e Joel Hirschorn: uno più brutto dell'altro.

Una scelta più felice venne operata da Saverio Marconi, Michele Renzullo e tutto l'entourage di Compagnia della Rancia nel 1998, in occasione della prima versione italiana dello spettacolo: ripristinare la partitura originale, sicuramente più vicina alle orecchie degli italiani e di gran lunga più raffinata, lasciando spazio solo a tre "inediti."

Massimo Romeo Piparo, per la "sua" versione italiana che ha debuttato l'11 febbraio al Teatro Sistina di Roma, si è mosso in una direzione totalmente differente portando in scena "pari pari" lo spettacolo londinese. Prescindendo dalla voglia di distinguersi dalla compagnia rivale, non mi sento di criticare questa scelta forse "forzata" da chi gestisce i diritti... ma perché millantare di aver ri-portato in scena lo spettacolo in occasione dei 60 anni del film se del film rimane poco e niente?

Ciò detto, se la "provenienza" delle musiche non è importante per il pubblico, generalmente poco attento, ho trovato alquanto sgradevoli, deludenti e poco ispirate le liriche italiane. "Dove sono le rime?" continuavo a chiedermi mentre immaginavo Johnny Mercer trotterellare nella sua tomba ad ogni accento tonico arbitrariamente spostato sull'ultima sillaba (esempio pratico: pèrdere > pèrderè).

La regia funziona "a tratti" ma è sostanzialmente rallentata dal continuo scendere del velatino su cui vengono proiettate delle immagini per agevolare i cambi scena. Ho sempre trovato antipatico l'eccessivo uso delle proiezioni in teatro, a meno che queste non fossero completamente integrate nella scenografia. In Sette Spose questa "amalgama" non avviene ed è lampante che la proiezione sia un modo poco originale di coprire gli spostamenti delle unità scenografiche... eppure la scenotecnica moderna è avanzata a tal punto che vedere i vari "pezzi" che si smontano e s'incastrano allo scoperto diventa uno spettacolo nello spettacolo! Le proiezioni rendono anche priva di mordente la scena della valanga che, chiudendo il primo atto, avrebbe dovuto lasciare senza fiato.

Bocciato il disegno luci - poco accurato - di Umile Vainieri: oltre ad una discutibile scelta dei colori in alcune scene (la danza della primavera e l'inseguimento delle ragazze, su tutte) ci sono alcuni momenti in cui il personaggio parlante viene lasciato completamente al buio creando una sorta di "buco" visivo.

Quanto al cast, devo fare i miei complimenti - e le mie scuse, non avendo mai creduto che potesse farcela - a Roberta Lanfranchi (Milly), calatasi perfettamente nel ruolo della moglie dolce ma decisa, sicura tanto nel canto quanto nella recitazione. Davvero una bella performance! Mi chiedo: ma a Tale e Quale Show si è esibita Robele Lazeem?

Non si può dire lo stesso di Flavio Montrucchio (Adamo) che, sebbene abbia il giusto aplomb da boscaiolo e un physique-du-role molto simile a quello del suo "predecessore" Howard Keel, quando si arriva al canto sta sempre sul filo del rasoio. La sua voce, tenorile e vellutata, è stata molto "lavorata" a livello esteriore/superficiale ma non sembra avere la base tecnica richiesta dal ruolo: soprattutto nelle ballad, infatti, gli riesce difficile sostenere le note più lunghe e i più delle volte risulta calante.

Tra i fratelli - tutti eccellenti ballerini - spiccano per "completezza" Giuseppe Verzicco (Beniamino), Alessandro Lanzillotti (Gedeone) e Giovanni Abbracciavento (Caleb). Le spose, invece, fatta eccezione per i momenti prettamente tersicorei, non mi hanno particolarmente colpito o entusiasmato. Chiudono il cast: Matteo Tugnoli (Filidoro), Andrea Spata (Daniel), Massimiliano Nardi (Ephraim), Alessia Cutigni (in sostituzione di Alessandra Calamassi, nel ruolo di Alice), Gloria Rossi (Dorcas), Rachele Pacifici (Lisa), Azzurra Adinolfi (Martha), Sabrina Cavallo (Ruth), Carmela Visciano (Sarah); Nicola Zamperetti (Mr. Hoallum/Reverendo), Chiara Costanzi (Mrs. Sanders), Silvana Isolani (Mrs. Hoallum), Tiziano Edini (Mr. Sander/pretendente); Nino Amura, Giammarco Capogna, Nico Colucci, Luca Di Nicolantonio e Francesco Italiani (i pretendenti).

Altre grandi protagoniste dello spettacolo avrebbero dovuto essere le coreografie di Roberto Croce... belle, ma senza il quid di quelle firmate da Micheal Kidd che hanno reso la pellicola memorabile e immortale.


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