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By: Feb. 24, 2014
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Stai pianificando un viaggio a Londra? Non sai che musical vedere e/o vuoi sapere quali sono i migliori su piazza? Ecco un resoconto della mia esperienza londinese, nella speranza che il mio personalissimo punto di vista possa esserti d'aiuto nell'orientarti nel West End. Nello stilare questa "graduatoria" ho fatto delle scelte un po' impopolari e aspetto di essere contraddetto. Ad ogni modo, enjoy it!


Stephen Ward

Aldwych Theatre, Londra
Première: 19 Dicembre 2013 - Fino al: 1 Marzo 2014
www.stephenwardthemusical.com

Musiche di Andrew Lloyd Webber
Testo e liriche di Christopher Hampton e Don Black
Regia di Richard Eyre

1963. Stephen Ward, osteopata, viene incastrato dal sistema giudiziario britannico per aver presentato al Segretario di Stato alla guerra John 'Jack' Profumo la showgirl diciottenne Christine Keeler, presunta amante di una presunta spia sovietica.

2013. A distanza di cinquant'anni, Stephen Ward diventa il protagonista del nuovo musical firmato Andrew Lloyd Webber (tra gli altri Jesus Christ Superstar, Evita, The Phantom Of The Opera, Cats). L'intento dell'autore è chiaro: dimostrare l'infondatezza delle convinzioni che vedono Ward al centro dello Scandalo Profumo portando avanti la tesi di un complotto politico cui lui servì da capro espiatorio. Il team creativo prende dichiaratamente le parti del protagonista, cerca di farlo passare a tutti i costi per un "sant'uomo" che rifiuta di prendere parte a un'orgia e respinge le avance della procace Keeler. Insomma, punta così tanto sulla sua innocenza da farlo risultare antipatico fin dall'inizio, quando, nella Camera degli Orrori di Blackpool, la sua statua di cera - tra quelle di Hitler, Jack lo squartatore e altri - prende vita per commiserarsi della sua fine. Non che sia sbagliato portare avanti una convinzione nel proprio spettacolo, ma un soggetto come questo - affascinante e, allo stesso tempo, complesso - richiederebbe un'analisi più approfondita per risultare credibile e non retorico. E la credibilità è la più grande lacuna di 'Stephen Ward'.

Un vero peccato, perché la storia avrebbe potuto funzionare se gli autori si fossero posti super partes e avessero conferito al libretto quel tantino in più di suspense che avrebbe reso l'intreccio più accattivante.

Dal punto di vista musicale, avrebbe giovato una partitura più smaliziata e "aspra"... nello stile di Kander & Ebb, per intenderci. E invece, ci si trova davanti a un susseguirsi di auto-citazioni che vede l'alternarsi di brani cheap (Super Duper Hula Hooper e 1963, in prima linea) ad altri banali e privi di mordente, il più riuscito dei quali è I'm Hopeless When It Comes to You, una struggente aria affidata alla moglie fedele di Profumo (Joanna Riding).

Il cast è ben assortito. Charlotte Spencer (una delle prime Jane Banks in Mary Poppins) è una piacevolissima sorpresa nel ruolo di Christine Keeler: spigliata, sexy e velatamente vulnerabile... fino al finalino. Accanto a lei, Alexander Hanson restituisce un Ward garbato e carismatico, ma non abbastanza da risollevare uno spettacolo che - specialmente nel secondo atto - toppa alla grande.

Perché andare a vederlo? Per capire e imparare cosa non va fatto quando si vuole scrivere un musical.

Perché NON andare a vederlo? Siamo lontani anni luce dai fasti dei "mega musical" a partitura continua che hanno fatto la fortuna di Webber. Se vi aspettate Jesus Christ Superstar 2.0 (per certi versi, anche Gesù è stato un capro espiatorio), rimarrete delusi.

Charlie and the Chocolate Factory

Theatre Royal Drury Lane, Londra
Première: 25 Giugno 2013 - Fino al: 1 Novembre 2014
www.charlieandthechocolatefactory.com

Musiche di Marc Shaiman
Liriche di Marc Shaiman e Scott Wittman
Testo di David Greig
Basato sull'omonimo romanzo di Roal Dahl
Regia di Sam Mendes

Willy Wonka ha inventato tante ricette. Purtroppo, la ricetta per il musical perfetto non esiste e Charlie and the Chocolate Factory non è un musical perfetto.

La storia si rifà alla celebre favola morale di Roal Dahl, già alla base del cult movie con Gene Wilder (1971) e del trascurabile remake burtoniano con Johnny Depp (2005), e ruota intorno a Charlie Bucket, un bambino dalle umili origini a cui viene data la possibilità di fare una "gita," insieme con altri quattro ragazzi, all'interno della fabbrica di cioccolato più famosa al mondo... sotto la guida del proprietario in persona: Willy Wonka. Tuttavia, i bambini sono ignari che il giro turistico è, in realtà, un "concorso" con l'intera fabbrica in palio e, nelle varie stanze dello stabilimento, ognuno dà il peggio di sé. L'unico a non avere vizi è Charlie, la cui condizione gli ha insegnato ad accontentarsi di poco garantendogli la vittoria e un giro sullo strabiliante ascensore di cristallo volante. La visione dell'autore è chiara e pessimistica: non c'è redenzione per i bambini che si comportano male, destinati sempre e comunque a una brutta fine.

Tra i tanti difetti, il tallone d'Achille di questa impresa fallimentare portata avanti dalla Warner Bros è proprio la musica. La partitura di Marc Shaiman e Scott Wittman (Hairspray, Catch Me If You Can, Smash!) non è lontanamente paragonabile a quella firmata da Anthony Newley e Leslie Bricusse per il film del '71, poi ampliata dallo stesso Bricusse per l'adattamento teatrale andato in scena al Kennedy Center di Washington nel 2004. Chi non ricorda il martellante (e inquietante) tema degli Oompa Loompa, o l'allegra I've Got The Golden Ticket? Sono tutti brani che risuonano nelle orecchie di chi ha visto e amato il film, qui sostituiti da canzoni che puntano tutto sullo stile e non sulla sostanza. L'unica superstite è Pure Imagination, lo splendido leit-motif del film che accompagna il magico viaggio sull'ascensore rendendo quel momento il più memorabile dell'intera serata. Nonostante ciò, tra fastidiosissime incursioni "tecno" e altre incoerenze stilistiche, alcuni momenti si salvano pur non essendo particolarmente buoni. Tra questi: la tenera Almost Nearly Perfect; il duetto tra i due genitori di Charlie, If You're Mother Were Here; e l'ammiccante Don't Ya Pinch Me, Charlie il cui riferimento a Consider Yourself di Oliver! è lampante. Il resto è banale e ripetitivo.

Mettendo da parte quanto detto, è d'obbligo segnalare l'ottima performance di Douglas Hodge nei panni del magnetico Willy Wonka nonché quelle degli enfants prodige che lo circondano (alla performance a cui ho assistito: Troy Tipple, Tia Noakes, Jade Johnson, Dane Juler e Adam Mitchell). Grande plauso alla scenografia e ai costumi mozzafiato di Mark Thompson, che riescono a ricreare - grazie ad un sapiente uso di proiezioni - ogni sala della fantomatica fabbrica che prende vita dalla fervida immaginazione di Roal Dahl. All'ingresso in sala colpisce l'imponente boccascena che, con un intelligente gioco prospettico, proietta lo spettatore all'interno della vicenda.

Non c'è dubbio, l'investimento è stato enorme ma i soldi non comprano il cuore e questo show, di cuore, ne ha poco... e, nonostante la regia di Sam Mendes, Charlie and the Chocolate Factory non sembra altro che un tentativo da parte della Warner Bros. di produrre un musical da blockbuster basato su un libro di Roal Dahl, sulla scia del trend lanciato da Matilda.

Perché andare a vederlo? La scenografia stratosferica e l'ascensore di cristallo che galleggia sulle prime file della platea renderanno la vostra serata memorabile.

Perché NON andare a vederlo? Fatta eccezione per la scenografia stratosferica e l'ascensore di cristallo che galleggia sulle prime file della platea, non c'è altro che renda la serata memorabile.

Matilda

Cambridge Theatre, Londra
Première: 24 Novembre 2011 - Fino al: Dicembre 2014 (prorogabile)
uk.matildathemusical.com

Musiche e Liriche di Tim Minchin
Testo di Dennis Kelly
Basato sull'omonimo romanzo di Roal Dahl
Regia di Matthew Warchus

Non avrei mai pensato di posizionare Matilda al quinto posto della classifica. Ammetto di non essere mai entrato in sintonia con il cast album - forse troppo "British" per i miei gusti - e speravo che vedere lo spettacolo, dal vivo, mi avrebbe fatto cambiare idea. Beh, in effetti ho cambiato idea... in peggio.

Alla base di questo musical troviamo - come per Charlie - l'omonimo romanzo di Roal Dahl: Matilda è una bambina precoce e dotata di poteri magici, ignorata e considerata un "peso" dai suoi genitori arricchiti e inetti. Per sfuggire dalla triste realtà che è costretta a vivere quotidianamente, Matilda si rifugia nei libri diventando un piccolo topo di biblioteca. Dopo varie resistenze da parte della famiglia, e le conseguenti "punizioni" a loro inflitte dalla figlia, Matilda viene finalmente mandata a scuola. Le sue doti cominciano a dare i loro frutti e l'insegnante, Miss Honey, propone alla preside - la tirannica Mrs. Trunchbull - di spostarla in una classe più avanzata. Nel frattempo, tra Miss Honey e Matilda comincia ad instaurarsi una forte amicizia e la maestra invita la bambina a casa sua per il tè. Tra una zolletta di zucchero e un biscotto, Miss Honey rivela alla piccola di aver avuto un'infanzia difficile: orfana di entrambi i genitori e affidata alla terribile zia, viene maltrattata da quest'ultima che dice di vantare diritti sull'eredità del fratello. Matilda, ricollegando gli avvenimenti, capisce che la famosa zia è proprio Mrs. Trunchbull e sfrutta i suoi poteri telecinetici per spaventarla a morte e costringerla a rivedere la sua posizione. L'happy ending è d'obbligo: Miss Honey diventerà preside della scuola e Matilda verrà affidata a lei - nonostante l'iniziale riluttanza dei genitori.

La prima domanda che mi sono posto uscendo dal teatro è stata: cosa ha aggiunto la musica alla trama? Tim Minchin ha firmato alcuni brani carinissimi e d'effetto - Naughty, Revolting Children, When I Grow Up, My House - ma sugli altri ho non pochi dubbi. Ho avuto come l'impressione che ogni numero facesse fatica a prendere il volo (e a volte, la scintilla si spegneva ancora prima che il brano finisse). Causa di questo è stata sicuramente la performance sotto tono del cast di quella sera ma, secondo me, il punto debole più evidente sono le liriche: sono difficilmente comprensibili e percepivo il disappunto anche dei madrelingua seduti accanto e dietro di me.

Ho trovato insulsi e alquanto noiosi i momenti dedicati alla "storia" che Matilda racconta alla Libraia: troppo lunghi. Magari, se fossero stati più brevi, avrebbero potuto risultare più incisivi anche senza le pantomime che li accompagnavano.

Lo spettacolo incede lento, senza particolari momenti che ti tengano incollato alla poltrona. Sarà senz'altro un mio limite, ma mi chiedo: qual è il motivo di tutto questo entusiasmo nei confronti di questo musical? A me non ha emozionato e non sono riuscito ad entrare in empatia né con la storia, né con i personaggi. Su quest'ultimo punto, il più facilone Annie batte Matilda 10 a zero: non avrà una partitura sofisticatissima ma ogni volta che lo vedo - in qualsiasi versione - riesce sempre a intenerirmi. L'unica cosa che ha davvero catturato la mia attenzione è stata la scenografia - geniale - di Rob Howell: un pittoresco incastro di cubi alfabetici in legno che si compongono (o scompongono) per ricreare le varie location. Gli effetti speciali (di Paul Kieve) sono pochi... ma buoni!

Perché andare a vederlo? L'hype su questo musical è talmente entusiastico che non mi sento di sconsigliarne la visione... anche perché trovo sia una buona occasione per portare i bambini a teatro.

Perché NON andare a vederlo? Se non avete bambini a carico e credete di poter resistere ad un linguaggio più "caustico"... investite meglio i soldi del vostro biglietto e andate al punto 1.

Spamalot

Playhouse Theatre, Londra
Première: 14 Novembre 2012 - Fino al: 12 Aprile 2014
www.spamalotwestend.co.uk

Musiche di John Du Prez & Eric Idle
Testo e liriche di Eric Idle
Regia di Christopher Luscombe

Prendete uno dei film più divertenti dei Monty Phyton, aggiungeteci la partitura ammiccante e "strappa risate" di John Du Prez e Eric Idle e otterrete Spamalot: un perfetto mix di ilarità, musica e colori incorniciato nella scenografia semplice e cartoonesca di Hugh Durrant.

La trama riprende essenzialmente quella del film del 1975 e conserva tutte le gag che gli appassionati più fedeli si aspettano (e, talvolta, anticipano): Re Artù (Joe Pasquale), insieme con il suo scudiero, Patsy (Michael Burgen), e un manipolo di cavalieri partono all'avventura per trovare il Sacro Graal. La ricerca li porta in Francia, nelle grinfie del Cavaliere Nero e di un abominevole coniglietto assassino, a un incontro ravvicinato con il Cavaliere che dice "Ni," e in un'intima liaison con la Dama del Lago (un'eccellente Carley Stenson, in the style of Celine Dion).

Oltre ai già citati, completano il cast: Robin Armstrong (Sir Bedevere), Rob Delaney (Sir Robin), Adam Ellis (Prince Herbert), Conan House (Sir Lancelot), James Bisp (Sir Galahad), Anouska Eaton, Steffan Harri, Chris Jenkins, Hannah Malekzad e la straordinaria partecipazione in video di Eric Idle (ex Phyton) nel ruolo di Dio. Il cast non è molto numeroso - se paragonato a quelli di altre produzioni - ma, grazie all'alternarsi degli attori in più ruoli, funziona alla perfezione e l'abbondante energia che sprigiona si presta bene al carattere farsesco dello show. L'unico membro del cast che non mi ha convinto pienamente è stato il protagonista, Joe Pasquale, che più volte ha interrotto lo spettacolo per essere scoppiato a ridere durante le gag e aver dimenticato le proprie battute (mettendo in difficoltà i suoi compagni di scena). Non metto in dubbio la sua verve comica e la capacità di "cacciarsi fuori dai guai" ma, nonostante abbia io stesso trovato molto spassosi questi momenti, con il senno di poi è stata questa la motivazione che - da un iniziale ex aequo tra Spamalot e From Here to Eternity - mi ha convinto a far retrocedere il primo in favore del secondo.

Lo Spamalot in scena al Playhouse Theatre è lo stesso approdato a Trieste qualche anno fa: una produzione "piccola," che non ha nulla da invidiare alle major ma che - a mio modesto avviso - potrebbe funzionare bene anche in Italia. Questa versione, infatti, è stata sostanzialmente rivista, "attualizzata" e resa più attraente per il pubblico europeo. Tra le modifiche più evidenti e divertenti abbiamo You Won't Succeed on Broadway (If You Don't Have Any Jews) che qui diventa You Won't Succed in Showbiz (If You Don't Have Any Stars), sicuramente più allettante e spassoso per un pubblico assuefatto dalle logiche dello "star system."

La partitura di Idle e Du Prez è ammiccante e brillante, e regala al già goliardico libretto una comicità tutta nuova. Non si smette di ridere, dalla prima nota dell'opening number Finland agli inchini... passando per I Am Not Dead Yet, The Song that Goes Like This (ironico riferimento alle ballad stile Andrew Lloyd Webber) e The Diva's Lament. La score include anche Always Look on the Bright Side Of Life, canzone tratta da un altro celebre film dei Monty Phyton, The Life of Brian, che coinvolge il pubblico in un delizioso sing-along!

Perché andare a vederlo? Se amate l'irriverente comicità dei Monty Phyton - e anche se non sapete chi siano - regalatevi due ore di puro entertainment!

Perché NON andare a vederlo? La visione dello spettacolo è sconsigliata ai bambini di età inferiore ai 12 anni.

From Here to Eternity

Shaftesbury Theatre, Londra
Première: 23 Ottobre 2013 - Fino al: 29 Marzo 2014
fromheretoeternitythemusical.com

Musiche di Stuard Brayson
Liriche di Tim Rice
Testo di Bill Oakes
Basato sul romanzo di James Jones
Regia di Tamara Harvey

From Here to Eternity è il primo musical completamente originale firmato da Sir Tim Rice, dopo tredici lunghi anni di assenza dalle scene londinesi.

Basato sull'omonimo romanzo semiautobiografico di James Jones, il musical - ambientato in Ohau (Hawaii) nel 1941, qualche giorno prima del tristemente famoso attacco a Pearl Harbour da parte della flotta aerea giapponese - vede come suo protagonista Robert E. Lee Prewitt, volontario dell'esercito americano. Il Capitano Dana Holmes, venuto a sapere del suo prestigioso passato da boxer, cerca di coinvolgerlo nella squadra di boxe del reggimento ma Prewitt rifiuta, avendo appeso i guantoni al chiodo dopo aver accecato il suo compagno di sparring l'anno prima. In risposta al suo rifiuto, Holmes fa di tutto per rendergli la vita impossibile... nella speranza di fargli cambiare idea. Gli altri ufficiali fanno la loro parte nel complotto. L'unico a supportare Prewitt è l'italoamericano Angelo Maggio (che nel film del '53 aveva il volto di Frank Sinatra). A ciò s'intrecciano una liaison proibita tra il Primo Sergente Milton Warden e la moglie di Holmes, Karen; una storia d'amore tra Prewitt e una prostituta, Lorene, che però sogna di sposare un uomo "a modo" con un lavoro "a modo" per vivere una vita "a modo;" e qualche - ehm - violenta morte.

Tagliamo subito la testa al toro: l'unico grosso problema di questo show è il libretto di Billy Oakes (al suo debutto come book writer), che non riesce a destreggiarsi bene tra le tre story-line che compongono la trama e, cercando di dare a tutte la stessa importanza senza mai prendere una direzione, sacrifica inevitabilmente alcuni importanti dettagli.

Tutto il resto è un trionfo. La regia di Tamara Harvey (per la prima volta nel West End) conferisce allo spettacolo quel carattere crudo che la storia rende necessario e, insieme con l'impianto scenografico di Soutra Gilmour, fa un intelligente uso dello spazio scenico incorniciando i vari ambienti con tende, persiane e veneziane. Geniali le coreografie Javier de Fruto, che trasformano le "mascoline" routine militari in energici e potenti momenti tersicorei.

Stuart Brayson e Tim Rice firmano una score molto eclettica che spazia dal blues (Ain't Where I Wanna Be Blues) a ritmi più esotici (Don'cha Like Hawaii), da potenti assoli (Fight the Fight) a grandi momenti corali (G Company Blues; The Boys of 41)... a mio parere, una delle migliori (originali) che il West End abbia visto negli ultimi anni.

Nel cast spicca il magnetico Robert Lonsdale, che restituisce un Prewitt ostinato e intenso. Molto d'impatto il suo "tema portante" Fight the Fight. Accanto a lui, l'eccellente Ryan Sampson nel ruolo di Angelo Maggio, che dà un tocco di brio all'intero spettacolo anche nei momenti che precedono la sua morte: la sua I Love the Army è un vero showstopper! Un po' legnoso invece il Warden di Darius Campbell.

Il ritorno di Time Rice può, tutto sommato, considerarsi un successo. Al contrario di Webber, storico compagno con cui ha firmato successi quali Joseph And the Amazing Technicolor Dreamcoat, Evita e Jesus Christ Supertar, Rice ha avuto l'intelligenza (o la fortuna?) di poter variare e rinnovarsi... e questo lo si nota se si fa un paragone tra Stephen Ward e From Here to Eternity, la banalità e la novità.

Perché andare a vederlo? È un buon prodotto originale e la storia, nonostante sia ambientata in America, messa in musica, diventa universale. La scena dell'attacco a Pearl Harbour è mozzafiato.

Perché NON andare a vederlo? Il libretto ha i difetti già enunciati e non è sempre facile seguire i vari sviluppi della trama.

Once

The Phoenix Theatre, Londra
Première: 9 Aprile 2013 - Fino al: 4 Luglio 2015
www.oncemusical.co.uk

Musiche e liriche di Glen Hansard & Markéta Irglova
Testo di Enda Walsh
Regia di John Tiffany

Al giorno d'oggi, i musical tendono a stupire (o "atterrire"?) con effetti speciali. Once va contro corrente ti conquista con la sua semplicità. Semplicità che non è da intendere come povertà di idee... tutt'altro!

Basato su un omonimo film irlandese low-budget, la trama si dipana nell'arco di cinque giorni e vede come protagonista un cantautore Dublinese in preda alla depressione per la partenza della sua ragazza. Lavora come manutentore di aspirapolveri nel negozio del padre, ma bazzica spesso un negozio di strumenti musicali dove incontra una donna ceca separata dal marito, con una figlia a carico e un'aspirapolvere da riparare. Lei convince Lui a realizzare una demo dei suoi pezzi e ad andare a New York, e i due s'innamorano inevitabilmente l'uno dell'altra. Tuttavia, Once ripudia il cliché del lieto fine e lascia un po' l'amaro in bocca nel concludersi con la ricongiunzione di Lui e della sua ragazza, a New York.

Nonostante il finale "non conforme ai canoni della love story," il libretto di Edna Walsh regala alcuni momenti più scanzonati per smorzare il tono dolceamaro della vicenda e la partitura di Glen Hansard e Markéta Irglova - essenzialmente uguale a quella del film - comprende sia ballad melodiche (la bellissima Falling Slowly, per citarne una) sia coinvolgenti brani folk (The North Strand, Ej Pada Pada Rosicka, It Cannot Be About That). Ma il vero punto di forza, che rende il tutto ancora più efficace, è la messinscena di John Tiffany: le canzoni - quasi tutte diegetiche - scaturiscono spontaneamente dall'azione ed è il cast stesso a suonare gli strumenti (violino, chitarra, fisarmonica, percussioni, mandolino...), oltre a ricoprire più ruoli. Trovata geniale quella di accogliere gli spettatori, prima dell'inizio della performance, nella magnifica cornice scenica di Bob Crowley: una specie di pub irlandese all'interno del quale prendono vita i vari ambienti grazia ad un sapiente gioco di luci e specchi.

Il cast è molto affiatato e ben assortito. Eccezionale la protagonista femminile, Zrinka Cvitesic che infonde al suo personaggio la giusta dose di grinta e vulnerabilità. Accanto a lei un convincente David Hunter (understudy di Declan Bennet, alla performance a cui ho assistito) nel ruolo di Guy. Il loro duetto su Falling Slowly tocca le corde del cuore... e bisogna davvero averlo di pietra per non essere mossi dalla loro esecuzione.

Uno spettacolo intimo e "vecchio stampo," lontano dalle logiche di mercato di Broadway, in cui la musica è vera protagonista; che sa alternare momenti di grande pathos a momenti più easy, in una storia "reale" con personaggi "reali."

Perché andare a vederlo? Lo spettacolo avvolge il pubblico e riesce a catapultarlo letteralmente sul palcoscenico. La storia parla di opportunità mancate e riesce ad entrare in empatia con il pubblico per i suoi personaggi semplici e veri.

Perché NON andare a vederlo? Ammetto che il genere non mette tutti d'accordo... quindi, se avete il cuore di ghiaccio ve lo sconsiglio caldamente.

The Book Of Mormon

Prince of Wales Theatre, Londra
Première: 25 Febbraio 2013 - Fino al: 28 Giugno 2014
bookofmormonlondon.com

Testo, musiche e liriche di Trey Parker, Robert Lopez &
Matt Stone

Regia di Casey Nicholaw & Trey Parker

Hello! My name is... così si apre The Book Of Mormon, il dissacrante musical firmato dagli autori di South Park - Trey Parker e Matt Stone - che fa della cultura Mormone il suo principale bersaglio. Offensivo? Forse... ma anche troppo divertente!!!

Dopo un breve prologo che spiega - sempre in chiave parodica - la "genesi" del Libro dei Mormoni, ci si sposta al Centro d'Addestramento per Missionari di Provo in Utah, dove il bell'adepto figlio di papà, Elder Kevin Price, insieme con i suoi compagni dà il via ad una sorta "presentazione" porta a porta del Mormonismo. Arriva il momento di partire per la missione e vengono dunque formate le coppie da spedire tutt'intorno al globo. Kevin ha un solo sogno: essere mandato a Orlando, in Florida... e, invece, finisce in Uganda con il goffo e incorreggibile nerd Elder Arnold Cunningham. A dar loro il benvenuto è il capo-tribù, Mafala Hatimibi, il quale - insieme con un gruppo di popolani - esprime il proprio disappunto circa le "sfighe" che devono affrontare ogni giorno: fame, povertà, AIDS, infibulazione. Non si può dire che il loro lamentarsi sia poi così "ortodosso" e i due si dissuadono circa la fattibilità di una conversione del villaggio alla religione Mormonica. Solo grazie a delle piccole innocenti bugie, Elder Cunningham riesce ad infondere un briciolo di speranza e a far cambiare idea alla popolazione. Peccato che sommando bugie su bugie, Arnold abbia inventato una religione tutta sua... tant'è che in Uganda si comincia a divulgare il verbo del "Libro di Arnold!"

Da una trama così surreale e assurda non poteva che venir fuori The Book of Mormon, uno spassoso mix d'ironia, sfrontatezza e salacità sulle note della brillante partitura di Robert Lopez (candidato all'Oscar per Frozen, tra gli altri suoi lavori: Avenue Q, Winnie the Pooh, Finding Nemo) che aggiunge un tocco di brio in più al pacchetto. Un continuo di risate: dall'intro Hello! (che, per analogia, ricorda il modus operandi dei Testimoni di Geova, a noi più vicini), al simpatico duetto You and Me (But Mostly Me); dalla "blasfema" Hasa Diga Eebowai, alle ammiccanti Turn It Off e All-American Prophet... passando per Man Up, Making Things Up Again e l'"anthem" I Believe.

Il cast, preparatissimo, è capitanato da un Gavin Creel in grande spolvero - ancora una volta nei panni di Elder Price, ruolo che aveva già ricoperto nel tour americano di Mormon. Accanto a lui abbiamo il deliziosamente buffo Jared Gertner nei panni di Elder Cunningham... forse il "vero" protagonista del musical, che riempie il palcoscenico con la sua vis comica. Menzione particolare merita anche Alexia Khadime - una dolcissima Nabulunghi - che porta a casa con successo uno dei momenti più teneri dello spettacolo, Sal Tlay Ka Siti.

Perché andare a vederlo? È uno spettacolo che, oltre al far morir dal ridere, lancia dei messaggi importanti sotto le mentite spoglie della satira religiosa: c'è bisogno di "speranza," non importa quale forma prenda il tuo "credo;" la religione serve ad unire, non a dividere.

Perché NON andare a vederlo? Non è uno spettacolo per bambini: contiene linguaggio spinto, esplicito e - a tratti - blasfemo. Astenersi bigotti e perbenisti.


Ho visto anche altri due musical ma, considerato il loro successo pluriennale, ho pensato che inserirli in una classifica sarebbe stato inutile. Sto parlando di Wicked e Billy Elliott. La loro visione è un'esperienza imprescindibile per qualsiasi amante del genere... quindi, se vi trovate a Londra, fate un salto a Leicester Square e comprate i biglietti per entrambi: i teatri - il Victoria Palace e l'Apollo Victoria - sono dirimpettai, si può benissimo organizzare un "doppio spettacolo!"



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